Condividi su Facebook

News

Di una 'malattia mortale'


Materiali provenienti dal forum del Ministero della P.I. di supporto
al lavoro della Commissione sul Riordino dei Cicli
di Carlo Delfrati

"La malattia mortale della scuola di casa nostra […] ha nome […] dispersione (ripetenza, abbandono)". Così F. Frabboni (Gruppo 6, 18.07). Trascurando il dato di segno contrario, richiamato dal Ministro in apertura dei lavori della Commissione, sul forte recupero positivo negli ultimi cinquant’anni, credo che ben più "mortale" sia la malattia che chiamerei "abbandono in permanenza", la condizione di "separati in casa" tra insegnanti e allievi: che tocca forse il suo acme nell’attuale scuola media, e che si può attribuire in elevata misura a insufficienze nella capacità di motivare gli allievi da parte dell’insegnante (queste a loro volta a insufficienze di formazione). Il gap tra insegnanti e alunni deriva largamente dalla falda profonda a cui ancora attinge la scuola di casa nostra: il modello statico-nozionistico, accumulante, di cultura, basato sulla selezione pregiudiziale di ambiti disciplinari "nobili", sull’assillante ricerca di un repertorio "minimo" di contenuti (che si traduce di fatto in corsa affannosa alla consegna del massimo possibile), sulla chiusura monodisciplinare, sulla metodologia dell’addestramento ripetitivo, e via discorrendo.

Un modello dinamico
Anche se la polarizzazione è di comodo (un modello comprende pur sempre una porzione dell’altro), l’auspicabile alternativa è ben richiamata anche in commissione: il know how opposto al know that; il "passaggio dal sapere accademico specialistico ad una struttura formativa delle discipline" (C. Fiorentini, Gruppo 7b, 21.07); i "saperi procedurali" (G. Cerini, Gruppo 7b, 13.07), opposti, com’è stato già ribadito da vari interventi, piuttosto che ai "saperi dichiarativi", ai "saperi inerti"; "impadronirsi degli strumenti concettuali e delle tecniche di analisi" [e di azione] ("L’indirizzo di scienze sociali…" in Documentazione); insomma la costruzione della "testa ben fatta" che F.P. Firrao (Gruppo 7c, 16.08) richiama da Montaigne e Morin. Esigenza radicale è "stabilire una relazione forte tra ciò che si studia a scuola e ciò che esiste nella realtà e nella società" ("Prima sintesi" del Gruppo 7c). Il focus posto sui bisogni del soggetto che apprende illumina lo scenario retrostante: che è quello della realtà quotidiana nella quale gli scolari sono immersi come attori, e di cui fanno pur parte i Pokémon e Brittney Spears, le playstation e lo sportware ultimo grido.

I risvolti negativi di tali esperienze (la "sempre più marcata tendenza alla sedentarietà", il "privilegiare soprattutto le percezioni visive […] in forma spesso ripetitiva (playstation)", la "sovraesposizione a modelli forniti dalla pubblicità [che] sottopongono l’immaginario giovanile ad omologarsi a mode e standard molto condizionanti": D.Grazioli e C. Serafini, "Dal curricolo ai criteri generali?", in Documentazione) dovrebbero orientare la scuola a predisporre strumenti difensivi: che non possono essere se non strumenti distanzianti e attivanti insieme, strumenti insomma di lettura e di partecipazione. La bassa qualità spesso giustamente lamentata di questa "sub-cultura" è reciprocamente il risultato del disinteresse e dell’abbandono in cui essa è lasciata dalla "super-cultura". Il riscatto non dovrebbe trovare i suoi momenti forti nei giorni di scuola?

Difficile credere che il riscatto possa invece passare da una strategia del muro contro muro, della distrazione degli studenti dai modelli consumistici ai modelli alti. Ancora una volta non è questione di trasmissione di contenuti ma di attivazione di procedure.

Iperverbalismo?
La "sedentarietà" lamentata da Grazioli e Serafini non compromette solo la dimensione corporea. E’ nel suo complesso la scuola "carta e penna"(che potrebbe un domani essere sostituita da una scuola monitor e tastiera conservando interamente la sua natura). Qui soprattutto credo risieda la crisi di motivazione che attraversa l’ora scolastica. Carta e penna, o, se si vuole, una forma di "iperverbalismo", di "algebrosi verbale" (M. Jousse): la tendenziale riduzione delle discipline ai loro contenuti/procedure verbalizzabili. (La critica di I. Bassotto al libro di testo – Gruppo 7b, 22.08 - andrebbe generalizzata come critica di una scuola iperverbale). Il corpo è naturalmente il primo a farne le spese (perché non arrivare a suggerire un tetto alle "ore di banco"?). E non solo nei suoi aspetti fisiologici, ma ben più in là, nei suoi aspetti comunicativi ed espressivi. Mi sembra forte e meritevole di sottolineatura il riferimento di Grazioli e Serafini alle "diverse espressioni della cultura motoria", il richiamo ai grandi assenti (o pallide comparse) nel nostro sistema educativo: teatro, danza, mimo… Il timore di un’estensione disciplinare non sopportabile dal sistema può sorgere solo in un modello statico di scuola, incentrato sui (pochi) saperi assunti a priori come essenziali, e massimizzati (penso al tempo scolastico assorbito dalla quisquilia ortografica di fronte all’incuria in cui si lasciano strutture fondanti di tante discipline). Lo spazio a discipline "nuove" rispetto all’aristocrazia tradizionale si giustifica proprio con la precedenza ai bisogni dei giovani, e ai saperi procedurali in grado di soddisfarli. Insomma non s’invocherà la moltiplicazione delle conoscenze tecnologiche, per fare un altro esempio, ma anche qui l’attivazione di un "pensiero tecnologico" (G. Sacchi, Gruppo 7b, 04.08). E così per gli altri "pensieri".

Un aspetto paradossale della scuola carta e penna è che nemmeno l’oralità viene garantita dall’iperverbalismo: tanto che può passare, senza sospetto che qualcosa non funzioni, anche la più sconcertante "sclerosi prosodica", l’incapacità dello scolaro di adoperare espressivamente la propria voce. E’ il risultato di un linguaggio appreso dalla pagina escludendo il suono; dall’osservazione invece che dall’ascolto? Qui per inciso si profila un compito primario per l’"educazione al suono e alla musica", come si chiama la disciplina nell’attuale scuola elementare: da una parte l’educazione alle componenti musicali del linguaggio (c’è da prefigurare un vero e proprio percorso di educazione prosodica); dall’altra l’educazione ad ascoltare. "Ascoltare gli altri" non è una semplice metafora; implica l’attivazione di una modalità di relazionarsi incentrata sull’esperienza uditiva (il mondo non è semplicemente una costruzione di "punti di vista", ma anche di "punti d’ascolto"…).

La precedenza alla motivazione
La critica all’iperverbalismo non mette ovviamente in questione la centralità del linguaggio verbale nella comunicazione, a cominciare dalla comunicazione didattica. Due sono piuttosto le deduzioni. La prima riguarda l’effetto controproducente che può essere provocato dalla forte sperequazione tra verbale (o addirittura meta-verbale) e non-verbale, dall’estrema specificazione del primo, dall’eccesso di esercizio. Nonostante l’iperspazio in cui si muove il linguaggio verbale nella nostra scuola, si lamentano spesso (anche da parte dei Ministri) le insufficienze linguistiche dei nostri giovani. Evidentemente la povertà dei risultati non è imputabile alla quantità dell’esercizio, ma alla qualità della motivazione. I riscontri si trovano in tutte le pratiche disciplinari. Un numero elevato di esercizi su derivate e integrali in un liceo scientifico hanno disamorato a tal punto l’allievo che oltre a spingerlo alla professione del gastronomo, hanno cancellato dalla sua memoria ogni ombra di procedura matematica; poche ore di scienze della terra in una terza liceo classico hanno convinto il potenziale brillante scrittore a optare per la carriera di geologo. Non per dire che in un liceo l’orario di matematica e quello di geologia debbano essere scambiati, ma per ribadire che la qualità farà sempre aggio sulla quantità (e che il disamore dello scolaro verso una disciplina insegnata in latenza di motivazione è direttamente proporzionale ai tempi di esposizione dello scolaro alla disciplina).

A proposito di competenze trasversali
Semmai – seconda deduzione - proprio la centralità del linguaggio verbale dovrebbe collocare la competenza linguistica fra le tipiche competenze trasversali, e quindi fare dell’educazione linguistica un obiettivo assunto dall’intero corpo insegnante: non surrettiziamente, come surrogato a impegni che meglio caratterizzerebbero la disciplina, ma esplicitamente, come parte del proprio incontro quotidiano con gli scolari. Ciò permetterebbe di alleggerire il surplus d’impegno dell’ora di italiano (penso al paradosso di manuali di italiano che riserbano spazi ai "linguaggi speciali": tecnologico, giuridico, musicale, economico, cinematografico …: linguaggi coltivabili, con maggior proprietà, efficacia e carica motivante, all’interno delle specifiche discipline).

A proposito del più ampio ventaglio delle competenze trasversali, Frabboni assegna il compito di allestire "itinerari formativi longitudinali" al "tavolo dei processi cognitivi", e "itinerari trasversali" al tavolo dei processi relazionali. Mi (gli) chiedo un paio di cose:

1. se la trasversalità non riguardi tutto sommato una quantità di processi cognitivi; l’attivazione dei processi logico-matematici non sarà certo un’esclusiva del "responsabile" della disciplina; la storia rischia di essere un contenitore vuoto se non vi entrano il diritto e l’economia, la geografia e l’arte…

2. se i processi relazionali (le "interazioni socioaffettive", i "vissuti valoriali") non meritino essi pure una progettazione longitudinale, una catena di obiettivi. Credo che la nostra scuola abbia troppo poco programmato questo comparto del curricolo, lo abbia lasciato al caso, o addirittura alla petizione di principio. "Il processo di apprendimento è sempre, a qualsiasi età, un intreccio fra oggetti da apprendere e interazioni sociali" (A. Alberti, Gruppo 7b, 05.08). Vedi la mappa tratteggiata da R. Govoni (Gruppo 7b, 04.08). Una finalità relazionale quale "accettare, rispettare, il punto di vista degli altri" può prevedere una trama di obiettivi particolari distribuiti su una rete di contributi disciplinari altamente differenziata. Le preoccupazioni per i risultati disciplinari, delle discipline codificate dalla tradizione scolastica, ha sempre fatto passare in secondo piano l’allestimento di un esplicito curricolo formativo di quelle che sono state variamente chiamate le risorse socioaffettive, l’intelligenza personale, l’intelligenza emotiva (forse perché queste sono direttamente esercitabili dentro le discipline legate al corpo più che al verbo, alla dimensione estetica più che a quella razionale, alle pratiche creative più che a quelle ripetitive – insomma più al drappello disciplinare che si costituisce fuori dalla terna – o non piuttosto ambo? - del leggere/scrivere e far di conto?).

Un corollario
Se si arriva a "smontare la contrapposizione tra disciplina e trasversalità, valorizzando il rapporto tra apprendimenti disciplinari e costruzione di competenze trasversali" (M. Palma, "Proposta di sintesi", in Documentazione), si prospetta un’assunzione di compiti da parte dei diversi docenti che non può non incidere sulla distribuzione oraria. Occorrerebbe forse in prima istanza tendere a un contatto paritetico tra ciascun docente e la sua classe; salvi gli inevitabili aggiustamenti resi necessari dai diversi compiti disciplinari. Solo così è possibile che ogni insegnante si assuma il diritto/dovere di non limitarsi a considerare se stesso un semplice trasmettitore di contenuti disciplinari, ma un educatore. La perequazione dovrebbe essere facilitata dal superamento, più volte richiamato, del perverso sistema delle cattedre, e per contro dall’apertura a una progettualità più articolata, e più creativa.

2016 © Edumus.com è proprietà di Export Digitale Srl - Sede legale e operativa: Via L. de Libero, 8 - 04022 Fondi (LT) -
P.IVA, C.F. e CCIAA di Latina IT02851780599 - Cap. Soc. 10.000€ i.v. - REA: LT-204311

--