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di Carlo Delfrati
da ScuolAmadeus di Gennaio 2006
Nei recenti dibattiti sulla riforma degli studi musicali ben
di rado si sente discutere di questioni metodologiche. Consideriamo per esempio
quelle lezioni di strumento in cui l’allievo deve eseguire il pezzo “come
vuole il maestro”: con quel fraseggio, quella dinamica, quell’agogica,
quella stessa diteggiatura, decisi come unici validi e riproposti a tutti gli
allievi, quale che sia l’età, il temperamento, la struttura fisica,
la vocazione, l’estrazione sociale, i gusti, le predilezioni. Obbedisci
ciecamente per dieci anni ai miei comandamenti, e al termine possederai i mezzi
che ti servono per vivere autonomamente: non è un ritornello frequente
in certe famiglie all’antica? Una scuola del genere può solo educare
alla dipendenza, la dipendenza acritica dall’autorità. Non riesce
certo nel compito più impegnativo per un insegnante: educare la persona
a prendere le proprie decisioni, educarlo all’autonomia. Fin dall'inizio
del rapporto educativo. E in tutti gli individui, tanto o poco dotati: Educare
all'autonomia è il titolo non di un manuale pedagogico, ma di un
Quaderno dell'Associazione Bambini Down. Se non rendiamo il bambino capace di
imparare da solo, rischiamo di non insegnargli nulla di veramente essenziale
per lui. “La missione della didattica, nelle parole di Edgar Morin, è
di incoraggiare l’autodidattica”.
Tornando all’esempio, un’educazione all’autonomia chiede che
fin dall’inizio l’allievo sia portato a cogliere il valore espressivo
della dinamica e dell’agogica, o il valore funzionale delle diverse diteggiature,
e, sperimentando modi diversi, sia educato a decidere per conto proprio l’una
piuttosto che l’altra soluzione esecutiva. Che non ne esista una sola
lo dice la storia delle revisioni. Ogni revisore propone una propria versione
degli aspetti “espressivi” di uno spartito, per non parlare della
diteggiatura. Fin dal Rinascimento: Girolamo Diruta nel suo Transilvano
considera dita “buone” – ci racconta Francesco Bellomi su
Musica Domani - indice e anulare; cattive le altre. Per Purcell nelle
sue Twelve lessons vale l’esatto inverso. Quanto all’agogica
e alla dinamica, sappiamo che ogni interprete propone i propri tempi e le proprie
sfumature di intensità. Se è comprensibile che gli interessi commerciali
intorno a una sonata di Beethoven o al Clavicembalo ben temperato di
Bach spingano editore e revisore a sbandierare la propria soluzione come la
migliore, anzi l’unica degna di essere praticata, l’insegnante dinamico
sta ben attento a distinguere i problemi commerciali da quelli educativi.
Puntare all’autonomia dell’allievo richiede all’insegnante
una virtù non da poco: la sicurezza personale. La posizione “diversa”,
se non proprio la contestazione, che il ragazzo può assumere, può
essere vista come un successo del suo insegnamento. Educare all’autonomia
vuol dire insegnare ad essere critici anche nei confronti del maestro. E’
forse anche per questo che nei dibattiti sulla riforma si parla così
poco di metodologie?
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