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di Carlo Delfrati
da ScuolAmadeus di Aprile 2006
Il ricordo delle Olimpiadi torinesi sta svanendo con le ultime nevi. Ma gli appassionati degli sport invernali ricordano ancora con emozione il grappolo di medaglie d’oro conquistate dall’Italia. E con le medaglie, le solenni celebrazioni, con tanto di apparato scenografico e musicale. Si suona l’inno nazionale naturalmente, Fratelli d’Italia. Ma lo cantano gli atleti? Lo canta il pubblico presente? L’evento sportivo è forse l’unico caso in cui gli italiani sentono quello che una volta si chiamava l’orgoglio patrio. E bocche che cantano se ne possono vedere (su quel che ne vien fuori, su quale sia la qualità musicale della prestazione, non sia il caso di sottilizzare, in un paese dove si evita accuratamente di praticare il canto non solo nella scuola elementare ma prima ancora in conservatorio).
Ma al di fuori delle sfide con sci e annessi, è difficile vedere connazionali sull’attenti e la mano sul cuore cantare commossi le parole di Goffredo Mameli. I cultori del sentimento patriottico citano, a nostro rimprovero, le abitudini dei nordamericani, tutti in piedi sull’attenti quando la banda attacca l’inno di Francis Scott Key, tutti protesi a cantare lo Star-Spangled Banner. Ma questa è un’immagine mitica. La realtà è molto più simile alla nostra di quanto non si possa sospettare. Due terzi degli americani adulti ignorano gran parte delle parole dell’inno, rivela un apposito sondaggio. Quanto alla musica, mentre c’è da credere che i nostri almeno riconoscano l’inno quando lo sentono eseguire, negli Stati Uniti sono in tanti a non saperlo fare. Per contrastare questa ignoranza musical-patriottica la grande associazione americana degli educatori musicali (più di centomila iscritti) ha varato un megaprogetto che coinvolge centinaia di scuole, enti pubblici e privati, fondazioni, aziende. In tutto il paese è in corso una quantità di iniziative per la diffusione dell’inno. Un’occhiata al sito http://www.tnap.org/sitemap.html rivela su quanti fronti sia stata aperta la battaglia del National Anthem Project. Solo patriottismo? Probabilmente no, se dietro lo slogan “l’inno per tutti, tutti per l’inno” i promotori non ne esibissero dichiaratamente uno diverso: “la musica per tutti...”. Insomma l’inno come pretesto per esigere dalla società americana maggiore attenzione (e maggiori fondi!) per l’educazione musicale del cittadino.
Torniamo fra noi. Gli americani che conoscono l’inno l’hanno
imparato a scuola. Una volta succedeva anche da noi. Già, una volta.
Forse è successo che la rimozione di un passato che ripudiamo si sia
tirata dietro anche tutto quello che quel passato piegava ai suoi poco encomiabili
fini, a cominciare dall’inno nazionale. Oggi è ben raro che a
scuola qualcuno si sogni di insegnare Fratelli d’Italia. Ma al
di là delle implicazioni storico-politiche c’è una riflessione
da fare sull’inno in sé e per sé. C’è chi
se la prende con la musica, composta da Michele Novaro. Sarà davvero
più bella la Marsigliese? Gorge Bernard Shaw scriveva: “la
volgarità incurabile della Marsigliese è un insulto alla bandiera
rossa”. Ma queste sono posizioni snobistiche. Il ritmo puntato dell’uno
e dell’altro inno ha qualcosa, se non di esteticamente aulico, di energetico
e vitale: proprio quello che ci vuole per dare la carica, almeno, agli atleti,
visto che da altri tipi di carica la nostra società saggiamente rifugge.
Semmai sono le parole che dovrebbero far rabbrividire. Passi per l’elmo
di Scipio, che i più, cantandolo “discipio”, credono sia
un nuovo modello di Borsalino. Passi per quell’impronunciabile “stringiamci
a coorte”, che l’innata musicalità del nostro popolo trasforma
in un eufonico e monarchico “stringiamoci a corte”. Passi anche
per quella “schiava di Roma” che tutti credono sia riferito, invece
che alla Vittoria (con la V maiuscola, per quale Vittoria non si sa) all’Italia
(strano che i leghisti non abbiano ancora bruciato le parole di Mameli sulla
pubblica piazza). Ma come si fa a cantare “siam pronti alla morte”
senza nascondere le corna dietro la schiena? Con buona pace di Goffredo Mameli
(a cui continuiamo ad attribuire l’esclusiva paternità del nostro
inno, quando almeno metà, la metà più sana, è
di Michele Novaro, il musicista), perché non bandire un concorso per
cambiare le parole? Alla musica dell’inno siamo giustamente affezionati,
fosse solo perché ormai la associamo ai trionfi sciistici, calcistici,
automobilistici e quant’altro. Le parole le potremmo tranquillamente
archiviare fra i documenti patetici della nostra storia. Perché non
si fa promotrice del concorso la consorella italiana dell’associazione
americana degli insegnanti? Dopo di che anche nella nostra bella e musicalmente
deprivata penisola potremmo lanciarci in un italico National Anthem Project:
un progetto per far sì che tutti gli italiani, almeno in qualche rara
occasione della loro esistenza, si trovino a cantare in coro.
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