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Il Solfeggio nel Conservatorio rinnovato


di Alberto Odone
(Corso di Solfeggio Sperimentale – Conservatorio di Como)

L’insieme di attività didattiche che si identificano tradizionalmente con la dizione "Teoria e Solfeggio" appare, tra i settori dell’istruzione musicale, quello che forse più di ogni altro subisce il retaggio di decenni di immobilismo. Tale lungo periodo di fissità ha creato uno status quo così saldamente presente nel modo di pensare e strutturare questa disciplina da parte di generazioni di insegnanti, da diventare oggi uno degli ostacoli più temibili nel momento in cui ci si ponga di fronte al compito di una sua riforma. Da più parti si avverte, fortunatamente, la ristrettezza dell’orizzonte tradizionale; l’eredità del passato sembra pesare, tuttavia, sulle stesse capacità di immaginazione e di orientamento didattico di molti.

La tradizione del solfeggio italiano porta fino a noi modalità didattiche di tipo addestrativo, direttamente ordinate al virtuosismo strumentale, segnate da una "mistica del difficile" che oscura spesso i valori di globalità e solidità necessari alla formazione musicale. Il compito formativo continua ad inseguire le obsolete vette del solismo (che il mercato del lavoro si occupa poi di smentire), perdendo di vista l’esigenza di dar conto, piuttosto, della complessa ricchezza del linguaggio musicale cui si applica. Le abilità addestrative che si perseguono (la ritmica parlata, il canto per intervalli, il dettato puramente melodico ecc.) sono di acquisizione relativamente rapida ma quasi sempre poco effettive sul piano dell’attività musicale reale. L’aspetto teorico subisce una correlativa strozzatura di tipo empirico e nozionistico, disconoscendo completamente le ricchezze del pensiero attorno alla musica; non si mira alla comprensione musicale ma alla fornitura di quegli elementi di alfabetizzazione – e solo quelli – necessari alla mera pratica strumentale. Coerentemente, il corso di solfeggio è confinato in una dimensione completamente previa rispetto al curriculum degli studi, sguarniti perciò di ogni ulteriore momento riflessivo e più globalmente formativo. Una prima istanza di riforma del corso riguarderà dunque la perdita di questa collocazione solo propedeutica e l’estensione, in forme e contenuti variamente articolati, a differenti momenti del curriculum musicale.

Va riscoperta la natura genuinamente musicale della disciplina; l’indole didattica delle attività in essa contenute non può far perdere loro il contatto con la musica viva e con il repertorio d’autore. In particolare, va riportato in primo piano l’aspetto sonoro della materia rispetto a quello scritturistico e semiografico.

Il lavoro con il suono ha come obiettivo centrale la formazione del pensiero musicale; la creazione, cioè, di punti di riferimento immaginativi che presiedano all’organizzazione cognitiva e quindi al ciclo fruitivo-produttivo dell’attività musicale. E’ questa la condizione per una reale appropriazione dell’espressione musicale nelle sue più diverse manifestazioni. Le vie di accesso e i settori di efficacia di tale obiettivo investono le diverse dimensioni della musicalità umana; non potranno restare escluse da tale processo formativo la sfera uditiva, quella cinestetica e quella visiva.

I settori di attività didattica ordinati a detto obiettivo sono sostanzialmente due: l’educazione uditiva e il canto. Essi sono i mezzi efficaci per il raggiungimento dell’obiettivo di cui sopra e costituiscono, nel concreto, la lezione di solfeggio. Lo studio della ritmica è una componente di tali attività. La sua sottolineatura o astrazione dal contesto musicale più generale sono possibili (benché abbiano in passato ricevuto un’attenzione sproporzionata) purché attraverso modalità di apprendimento di tipo variamente cinestetico; la ritmica parlata, sia pur debitamente sganciata dalle sillabe destinate all’intonazione, non può essere l’unica via. L’uso del movimento in genere, lo strumentario ritmico, la tastiera e il proprio strumento principale sono mezzi imprescindibili.

Nella rinnovata, e ancora fluida, articolazione degli studi musicali, si aprono le questioni legate al rinnovamento dei metodi e dei contenuti. Il vuoto metodologico è grande. Dopo la ventata positivista di inizio novecento, con la sottolineatura dell’aspetto ritmico, della presunta sua natura matematica e il conseguente progressivo predominio del solfeggio parlato, non sembra ci siano stati veri momenti di novità. I pochissimi che possiamo registrare, tra gli anni settanta e ottanta, o sono troppo pavidi nel solco della tradizione, o troppo debitori di impostazioni nate in altri contesti culturali.

Un patrimonio di intuizioni arriva a noi dalla storia remota e molto riccamente anche dall’ultimo secolo di pensiero teorico musicale; questo patrimonio può e deve dare forma e contenuto non solo alle discipline teorico musicali, ma all’intero quadro dell’attività didattica, ispirandone la metodologia. La delicata operazione di traduzione delle più acute intuizioni riguardanti la logica del linguaggio musicale in concreti itinerari didattici è il compito più urgente, complesso e affascinante che si pari oggi davanti a noi.

Il rinnovamento metodologico, condizione per l’efficacia dell’azione didattica e il suo adeguamento alla vita musicale reale, trova feconda ispirazione in due settori di riflessione tra loro correlativi: lo studio della musicalità umana (secondo quali processi di tipo percettivo, cognitivo, cinestetico l’uomo si appropria del linguaggio musicale?) di cui si occupa la psicologia della musica; e l’investigazione delle strutture proprie del linguaggio musicale (secondo quali meccanismi interni il fatto musicale ci appare sensato, attrae la nostra attenzione, diventa attività umana?) che è campo di indagine della teoria musicale intesa in senso proprio.

La psicologia della percezione e la progressiva tematizzazione della sintassi funzionale – almeno nel quadro della musica tonale – concordano nel rappresentare il linguaggio musicale come evento sintetico, come un insieme di elementi strettamente interconnessi in un contesto. E’ plausibile, dunque, che una didattica avveduta non proceda innanzitutto per elementi discreti (intervalli, singoli valori ritmici, parametri distinti ecc.) ma per modelli (patterns melodico-armonici, cellule ritmiche ecc.) e contesti musicali semplici ma completi. Ritmo, melodia, armonia ma anche timbro, testura e forma sono parametri che si rendono reciprocamente intelligibili (l’esempio più lampante: come tradurre in suoni un percorso melodico senza intuirne il disegno armonico?), certamente in dimensioni e modalità didatticamente fruibili. La prassi tradizionale vuole parametri distinti, attività determinate, uguali a se stesse dall’inizio alla fine del percorso didattico, solo portate ciascuna a difficoltà e astrattezza esponenziali; la natura della musicalità umana e del linguaggio dei suoni suggeriscono l’impiego di materiali che riflettano la realtà composita del linguaggio musicale, permettendo la formativa interazione tra le componenti, per lo sviluppo di una mente musicale che dòmini progressivamente la logica che ne regola il gioco reciproco.

Gli sviluppi della teoria analitica del Novecento hanno presentato il linguaggio sonoro come espansione direzionata di strutture fondamentali. Lo sviluppo dell’intuizione analitica – ad esempio l’identificazione anche estemporanea dei suoni strutturali (portanti) di una melodia – non ha solo valenza euristica ma risvolti pratici nei confronti dell’abilità, in questo caso, di appoggiare certi suoni a strutture soggiacenti (accordali, scalari ecc.) e modelli melodici parallelamente acquisiti. Sappiamo che musica e percezione funzionano in questo modo; perché non dovremmo trarne le conseguenze didattiche?

Il settore dell’educazione uditiva riveste particolare importanza nel quadro della disciplina, sia in riferimento ad esperienze estere, sia relativamente all’obiettivo formativo centrale, sia per le stesse esigenze professionali del musicista. Il consueto passaggio "audizione melodica-scrittura" (dettato melodico) è insieme troppo e troppo poco. E’ poco in riferimento alle molteplici istanze che le professioni musicali indirizzano all’udito: occorre ampliare e diversificare le attività uditive non tutte forzatamente ordinate alla scrittura ma anche a riconoscimento, autocorrezione, sviluppo della memoria musicale e dell’intonazione, controllo nella musica d’insieme, improvvisazione ecc. Lo stesso tradizionale dettato è "troppo" nel senso che un unico esercizio racchiude una molteplicità di processi cognitivi straordinariamente complessa; il suo scioglimento in un’ampia gamma di attività correlate è condizione per una didattica non solo ordinata a discernere "chi ce la fa" (da solo), ma effettivamente efficiente. In questo, come in altri settori della disciplina, è sentita anche l’esigenza di una personalizzazione dei percorsi in un senso che tenga conto delle evidenti differenze tra gli stili cognitivi musicali degli utenti. In questa direzione, e non solo, si aprono le possibilità offerte alla didattica dal supporto informatico.

L’augurabile estensione della disciplina ai corsi superiori della formazione musicale vedrà probabilmente la separazione tra la sua indole pratica e quella teorica: quest’ultima fortemente bisognosa di riqualificazione; la prima utilmente diversificabile anche in senso stilistico, ad interessare – per esempio – tecniche e strategie necessarie all’approccio dei linguaggi musicali pre e post tonali.

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