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LA MUSICA NELLA RIFORMA DELLA SCUOLA


di Carlo Delfrati
da "ScuolAmadeus" di aprile 2001

"Manca la musica!" - si è sentito gridare un giorno di febbraio, davanti alla riforma in atto della scuola italiana. Una riforma radicale, che intende ripianificare l’istituzione in tutti i suoi aspetti, come non si era più fatto dai tempi del Ministro Gentile, nel 1924. Gli ultimi dieci mesi sono stati dedicati alla stesura dei nuovi programmi, anzi curricoli, come si preferisce chiamarli. Li ha scritti un’apposita commissione di 270 componenti.

"Manca la musica!" Il grido d’allarme rimbalza per la penisola. Attraversa come un brivido perfino gli oceani. A un illustre uomo di teatro il dispaccio giunge da un amico che l’ha saputo in quel di Sidney, Australia. Che si stia muovendo in nostro soccorso anche la comunità internazionale?

Non ce n’è bisogno, grazie al cielo. Basta aprire il sito del Ministero, www.istruzione.it, dove ogni cittadino può leggere l’intero documento programmatico. Andiamo alla voce "Musica" e ci troviamo quattro fitte pagine di curricolo. Se non bastano queste, si può andare a leggere la selva di documenti preparatori redatti dalla commissione. Vogliamo ancora di più? Esistono decine di riviste specializzate che si occupano di scuola, e che danno tutte le informazioni desiderabili. La musica c’è, e come. Ma allora? Allora lasciamo un momento da parte la musica, e proviamo a inoltrarci nel labirinto delle informazioni, come ci arrivano dai media.

La cultura dei titoli

Purtroppo il tempo di ogni mortale è quello che è, e per informarsi non può certo ricorrere alle riviste specializzate. Ci sono le battute sommarie e contraddittorie della TV. Se faccio parte del 30% degli italiani che legge i giornali, mi affido a uno di questi. I guai cominciano qui. Perché nemmeno il giornalista, che per il mestiere che fa deve occuparsi un giorno di cibi transgenici, il giorno dopo di violenze sull’infanzia, un altro ancora di aziende in crisi, nemmeno lui ha il tempo di andare alla fonte, e spesso se la cava con una telefonata a qualcuno-che-dovrebbe-saperlo. Ma che magari quella volta sa ben poco di scuola e di riforme. A rimestare le carte ci si mette anche il suo redattore. Un giorno è echeggiato per la penisola un altro grido d’allarme, scritto in corpo quarantotto nel titolo di un quotidiano: "Il Ministro boccia le interrogazioni scolastiche". Ohibò, è mai possibile? Spingiamo gli occhi oltre il titolo, alle prime righe dell’articolo. Ecco le parole del Ministro stesso: "I tradizionali metodi dell’interrogazione e del voto vanno conservati, ma integrati con più oggettive modalità di valutazione" eccetera eccetera. Altro che bocciati. Scherzi da redattore. La gente non ha sempre tempo di leggere gli articoli. Mille ogni giorno? Da impazzire. Ci si ferma ai titoli. E così è successo come con il gioco del telefono senza fili: in partenza abbiamo un Ministro che sta semplicemente parlando di verifica (verifica di quello che uno studente sa), e suggeriva di ricorrere anche a strumenti più attendibili, meno soggettivi, magari studiati e collaudati da gente che ci ha dedicato una vita; e al traguardo troviamo la lettera angosciata di quell’insegnante-lettore (lettore di titoli, s’intende, non di articoli, e tanto meno di fonti primarie) scandalizzato perché "il Ministro intende sopprimere il dialogo tra l’insegnante e i suoi alunni". Chissà quanti si saranno disegnato nella mente lo scenario post-cibernetico di una scuola muta, dove tutta la comunicazione passa attraverso mostruosi apparati computerizzati. Non importa che la stessa mano abbia raccomandato caldamente all’insegnante proprio il contrario: coltivare l’oralità del bambino, non sacrificarla come troppo spesso si fa al culto della scrittura.

La Storia al telefono senza fili

Un’altra volta è toccata alla Storia. Il curricolo della commissione invita a sostituire il nozionismo arido, fine a sé, con esperienze che facciano capire anche a un bambino i "meccanismi" della vita dei popoli, i nodi fondamentali dell’economia, della politica, del diritto; in un "continuo va e vieni" fra il presente e il passato. Dove il presente serve proprio per capire il passato, e - sorpresa! - il passato serve per capire il presente. Non la banale sequela di nomi, numeri ed eventi, ma la fondazione di una cultura storica. ""Sarebbe...un grave errore credere che l'ordine adottato dagli storici nelle loro ricerche debba necessariamente modellarsi su quello degli avvenimenti. Il procedere naturale di ogni ricerca è di andare dal meglio o dal meno imperfettamente noto verso il più oscuro." Chi lo dice? Uno dei tanti "avventurieri della Commissione ministeriale", come qualcuno amerebbe chiamarli? No, lo leggiamo nel testamento spirituale di uno dei più grandi storici della nostra epoca, Marc Bloch. Sentiamo adesso come il bel proposito è stato recepito dalla "base". Una zelante docente di liceo si rivolge indignata al quotidiano: "Leggo con viva preoccupazione…" Cosa ha letto? I documenti della Commissione? No, naturalmente: "…le notizie dei giornali…". E così l’originario invito a una Storia più seria, e soprattutto più feconda per un bambino, diventa, nella catena perversa della disinformazione, la … scomparsa della Storia: "Ai bambini si nega – deplora la Prof - di conoscere la storia dell’uomo", "ci si ferma a una contemporaneità priva di spessore e strappata dai suoi nessi con ciò che le generazioni precedenti hanno costruito e tramandato". Neanche il sospetto che una storia che non fa i conti col passato non è nemmeno pensabile.

Come in un film di De Funès

Ci sarebbe da scrivere un libro di storie giullaresche su come la riforma è stata recepita in certi quartieri. Non sempre in chiave negativa. La fonte prediletta, cioè i titoli dei giornali, è ricca anche di encomi, riguardanti le "grandi novità" dei nuovi programmi. Vai con i punti esclamativi: "spariscono i voti, sostituiti dai giudizi sulle competenze acquisite dai ragazzi!" - " i bambini impareranno l’alfabeto anche sulle filastrocche!" - "si darà finalmente importanza al leggere scrivere e far di conto!" - "la tv e il cinema entrano nella scuola" – "il giornale, nuovo strumento curricolare" – "corsi di recupero per chi è rimasto indietro"… Ma non sono tutte cose che si fanno da decenni? Dove sarà vissuto fino a ieri sera il redattore? In una stazione di ibernati, come il nonno di quel vecchio film di De Funès? Il quotidiano che lunedì ha gridato "Manca la musica!", il giorno dopo ci regala l’esclamazione opposta: "A scuola finalmente si studierà la musica!". Pure questo succede. E stavolta il redattore o addirittura l’articolista dimenticano (ignorano?) che la musica a scuola, nella scuola di base, si è sempre studiata. Dal 1963 tutti i cittadini che hanno frequentato la scuola media hanno avuto le loro brave ore di musica. Come sia stata insegnata, come continui a essere insegnata oggi che nella scuola media occupa due ore la settimana, o nella scuola elementare, dove un programma varato nel 1984 dice alla maestra le tante belle cose musicali che dovrebbe trasmettere al bambino, è un altro paio di maniche.

Chi ha paura del ciclo primario?

Il curricolo di musica esiste, e come. E’ una notizia che do come attendibile, visto che mi sono trovato anch’io a scriverli. In commissione non s’è fatto altro che riprendere in mano quelli esistenti, varati nel 1991 per la scuola dell’infanzia, nel 1984 per la scuola elementare, nel 1979 per la scuola media, nel 1991 in forma sperimentale per le superiori; valorizzare tutto quanto di positivo c’è ancora oggi in quei documenti, e ce n’è tanto; semplificare quello che lì pareva troppo complicato e arricchire quello che pareva troppo superficiale; e naturalmente aggiornare, sulle realtà che in quest’ultimo quarto di secolo sono venute emergendo.

Innovazioni ce ne sono molte, e solo alcune traspaiono da una lettura critica dei resoconti giornalistici, intendo dei migliori. L’innovazione più appariscente è nota: il ciclo di base passa da otto anni a sette, la superiore comincia un anno prima e finisce un anno prima; si accede all’università a 18 anni, non a 19. Ci si allinea all’Europa, naturalmente. Ma anche qui la disinformazione ha colpito duro: "Uccisa la scuola elementare! : la scuola elementare, la migliore esistente in tutto il mondo!" (Chissà come ha fatto il nostro redattore a conoscere il livello della scuola della Nuova Zelanda o dell’Uruguay, del Bhutan o degli Emirati Arabi Uniti … E diciamo pure di Germania e Stati Uniti, di Ungheria e Giappone… La migliore che esista al mondo: boh!). I commissari, posso testimoniare, sono anime pacifiche, che non colpirebbero la scuola elementare nemmeno con un fiore. Quello che è successo è ben diverso. Il nostro sistema scolastico si presenta come una macchina a compartimenti stagni, settori chiusi che non comunicano tra loro. Con la conseguenza di scarti bruschi nel passaggio da un settore all’altro. Soprattutto dall’elementare alla media. A volte sono traumi per il bambino. La riforma intende rimuovere i muri di separazione, introdurre una continuità, una crescita continua e progressiva dall’inizio alla fine degli studi. Dove quello che si fa ogni anno è in funzione delle capacità e dei bisogni del bambino. Per tornare alla Storia, il progresso che conta non è il passaggio da un secolo all’altro, ma l’acquisizione di sempre più maturi strumenti di lettura storica della realtà da parte del bambino; e così per ogni altra disciplina, anche per la musica. Il progresso non si deduce né si misura dal tipo di "cose" che il bambino impara, ma da "come" il bambino si trasforma, cresce, come persona che comprende, che sente, che sa agire.

Mucca pazza nella scuola?

Questo richiederà una certa osmosi tra gli insegnanti dei diversi gradi scolastici. Nella scuola elementare e media occorrerà introdurre un concetto ostico, un neologismo sospetto: "collaborazione" tra gli insegnanti. La musica è uno dei terreni dove le carte sono più scoperte. Perché qui la collaborazione può spingersi fino a una ridistribuzione dei compiti. Sappiamo che nella stragrande maggioranza delle scuole elementari la musica è presente solo sulla carta. La maestra lo riconosce e sa anche che nessuno può pretendere da lei che s’improvvisi tuttologa. Ergo, potrebbe arrivare a darle una mano, con i suoi bambini, uno che finora ha operato nella scuola media, dove per insegnare musica occorre un diploma di conservatorio. E’ bastato ventilare l’ipotesi di far collaborare con gli insegnanti elementari quelli della media (e viceversa! L’organizzazione del processo è ancora allo studio: nel senso che c’è chi in commissione sta studiando, seriamente, la cosa), che si è gridato alla contaminazione! "Mucche pazze nella mia scuola!": invasione degli ultracorpi$, nell’immaginario della maestra; discesa all’erebo, in quello dell’insegnante della media… Certo, l’amministrazione deve affrontare grosse questioni normative, contrattuali. Saranno forse questi problemi, come qualcuno paventa e qualcun altro desidera, a bloccare il diritto dei bambini a essere formati in modo autentico, efficace e stimolante? Tra i problemi seri da affrontare c’è la formazione dei docenti ai principi e ai progetti della nuova scuola. Attenzione: sono principi e progetti a volte vecchi di decenni, ma finora la scuola li ha fatti propri solo in realtà particolari, eccezionali. Così, per esempio, quando, e sono ormai anni, si è chiesto all’insegnante di sostituire i voti con giudizi sulle competenze, la grande maggioranza degli insegnanti l’ha ridotto a una banale questione di termini: dove ieri la maestra scriveva "nove", oggi scrive "quasi ottimo meno". Con questi precedenti, è chiaro che il tasso di funzionamento della scuola riformata sarà in diretto rapporto con la disponibilità dei docenti ad aggiornarsi. E con l’impegno del Ministero a investire nell’aggiornamento.

"C’è la musica!"

In commissione abbiamo proposto che la musica sia una componente significativa della vita scolastica del bambino del ciclo dell’infanzia e del primo biennio del ciclo di base, dunque dai tre agli otto anni; e che dal terzo anno della scuola di base, ossia dagli otto anni ai tredici, vada via via configurandosi come disciplina, al pari di ogni altra. Insegnata da chi la sappia insegnare, beninteso. Se questo è un docente che finora ha operato nella scuola media, buon senso vuole che mostri non solo di conoscere la musica, ma di conoscere il bambino. Questione delicata naturalmente, che si spera non sia imbavagliata da ipocrisie pseudo-egualitarie: non tutti dovrebbero poter andare a insegnare ai bambini piccoli!

Ma qui si entra nelle decisioni politiche, che sono in corso di definizione. Così come sospese sono ancora due decisioni fondamentali, che riguardano da vicino la musica. La prima è il monte ore che si riconoscerà alla disciplina nel ciclo di base. Qui ci si scontra con un’altra, reale e capitale novità della riforma: il programma definito dal Ministero riguarda solo quattro quinti dell’orario settimanale. Le otto ore restanti, ogni singola scuola deciderà in che modo usarle, su che contenuti, con quali obiettivi, in funzione delle esigenze locali. Dunque il monte ore "nazionale" di ciascuna disciplina ne risulterà inevitabilmente ridimensionato. Quello che abbiamo chiesto in commissione è che ciò non significhi per nessun insegnante un rapporto diminuito con i propri allievi: le due ore settimanali previste oggi per ogni insegnamento sono il minimo perché non siano compromesse l’interazione con gli alunni, le responsabilità educative "trasversali", la partecipazione ai compiti collegiali, programmazione, interdisciplinarità, orientamento degli alunni e così via.

La seconda questione aperta riguarda il ciclo delle superiori. Sono troppe per poter essere richiamate qui, le ragioni che fanno pretendere una presenza della musica nel primo biennio della scuola superiore, a parte il dato ovvio che questo biennio corona l’obbligo scolastico. La musica ha ormai un ruolo nelle più varie realtà e situazioni professionali del mondo contemporaneo, da quella di componente insostituibile della cultura "umanistica" alla sua partecipazione a disparati campi tecnologici o socio-sanitari. Questo fa prefigurare una sua presenza nel triennio come disciplina curricolare in alcuni casi, come disciplina opzionale in altri. I prossimi mesi ci diranno quale strada avrà imboccato il Ministero. E qui speriamo di non dover essere noi a dover gridare "Manca la musica!".

Ventisei settimane e mezzo

Al momento di andare in stampa, apprendiamo che il Ministro ha inviato ai competenti organi di controllo il testo definitivo dei curricoli di base. Nel quinquennio dalla terza alla settima sono assegnate alla musica, sul totale nazionale, 53 ore annue (a due per settimana fanno ventisei settimane e mezzo). Altre potranno essere decise da ogni singolo istituto. Per il suo insegnamento si precisa che si possono attivare "rapporti con esperti, ove siano carenti competenze già consolidate": dunque l’insegnante di educazione musicale dell’attuale scuola media, o anche un musicista con competenze didattiche, potrà insegnare ai bambini di 8-10 anni. La nota dolente va al capitolo che parla di obiettivi e contenuti dell’educazione musicale: mentre il testo riguardante le discipline egemoni (l’italiano, la matematica ecc.) è stato gonfiato fino ai dettagli più futili, il testo originario redatto in Commissione dal gruppo dei musicisti è stato sforbiciato e sfigurato, ridotto a un moncone, e interpolato con locuzioni a dir poco peregrine, come il "dare espressione a emozioni con il grido" o il conoscere "il grande patrimonio e melico della tradizione" (sic). Non dovrebbe stupire: l’anonimo funzionario ministeriale che ci ha rimesso indebitamente le mani dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, di quanta educazione musicale abbiano bisogno i nostri concittadini. A cominciare dai funzionari.

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