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L'EMBRIONE IBERNATO


di Carlo Delfrati

Quanti sono gli studenti di conservatorio che concludono gli studi con un diploma? Quanti sono quelli che superano almeno l'esame del corso inferiore? L'unica ricerca che si conosca al riguardo è stata pubblicata diversi anni fa (sulla rivista Musica Domani dell'aprile 1981, a firma di Carlo Besuschio). La risposta che ci offre è a dir poco drammatica: su 100 allievi che s'iscrivono in conservatorio, solo 33 passano ai corsi avanzati; 67 se ne vanno via prima (o sono bocciati). Altri 27 sono bocciati o se ne vanno prima del diploma. Il risultato sembra sconvolgente: solo il 5 per cento degli studenti che s'iscrivono in conservatorio arriva a concludere gli studi con un diploma entro i tempi fissati.

La statistica è un'arte dagli ingranaggi molto delicati, e l'insegnante che confronta quei dati con la propria esperienza quotidiana ha di che nutrire qualche perplessità. I dati pubblicati nel Rapporto Cidim sullo stato della musica in Italia nel 1993, a cura di Marcello Ruggieri, sembrano orientare su risultati più incoraggianti: su cento iscritti fra il 1975 e il 1985 supererebbero il primo traguardo all'incirca la metà. E di questi cinquanta, ancora una metà arriverebbe al diploma.
Quale che sia la verità fra quei due poli, resta il fatto che, come si dice nel gergo pedagogico, nei nostri conservatori è molto alta la mortalità scolastica. "Il nostro sistema scolastico è uno dei più selettivi del mondo", c'informano gli esperti. E dentro il sistema, il conservatorio sembra tenere il poco invidiabile primato.

Dotati e non dotati
In precedenti occasioni (vedi Amadeus n. 76, 78, 83) si è parlato degli studenti che si diplomano, di ciò che sono stati preparati a fare e di come usano nella vita il loro diploma. Forse è ancora più interessante osservare gli studenti che non si diplomano. Capire cosa si nasconde dietro la gran massa di abbandoni può fornire elementi preziosi al legislatore che in questi nostri giorni sta progettando una riforma dei conservatori.
C'è una prima, ricorrente risposta, che nella sua forma più sbrigativa suona come possiamo raccoglierla da un immaginario maestro Taldeitali: "non hanno talento, non sono dotati". Il maestro racconta episodi un po' particolari, anche se tutt'altro che infrequenti: tanti bambini entrano nella scuola media del conservatorio perché è la più vicina a casa, o perché ci va l'amica, o perché i genitori credono buona cosa che il loro rampollo studi uno strumento musicale: insomma per una ragione che non è l'interesse diretto del bambino. Togliamo questa frangia da quel 50-67 per cento che abbandona nei primi anni (anche se la domanda resta: come mai la scuola non ha saputo risvegliare l'interesse?). Ma gli altri, la maggioranza che ha scelto o abbracciato di buon grado l'idea di imparare uno strumento, perché non continuano?

Il nostro immaginario interlocutore incalza: "I candidati sono sottoposti a un esame attitudinale il giorno dell'ammissione: che è un esame severo. Noi ne respingiamo una notevole quantità. Ma il talento, la dote, non si afferma subito, ed è quindi difficile verificare il giorno dell'ammissione se il candidato la possiede o no. Siamo dunque costretti a tenerlo a lungo a scuola prima di renderci conto se è dotato. A lungo quanto? Anche anni, tre, quattro..." Un po' in ritardo il nostro buon maestro si accorge che qualcosa non quadra nella spiegazione: che sia difficile verificare una dote speciale in un bambino è fuori discussione; ma che si possa sbagliare la diagnosi nel 75-95 per cento dei casi, per di più dopo il "severo esame" del primo giorno: non sarà eccessivo?
E poi: il maestro continua a parlare di "elementi dotati": ma dotati per cosa? Per esibirsi come solisti in concerto? come componenti di un'orchestra sinfonica? E tutto il resto? Potremo forse diagnosticare che un bambino di 11 anni non sia dotato per diventare compositore o tecnico del suono, critico musicale o insegnante, programmatore musicale o responsabile editoriale? Quanti potenziali eccellenti professionisti della musica avrà respinto il conservatorio con l'esame di ammissione? Quanti di quella forte maggioranza di caduti avrebbero potuto contribuire come talenti alla vita musicale del paese in forme diverse da quelle del concertismo?

Impegno e motivazione
Questa seconda perplessità non tocca il maestro Taldeitali, che è un serio continuatore della nostra migliore tradizione didattica: il suo obiettivo è formare lo strumentista, ai massimi livelli tecnici raggiungibili. Che uno studente possa intraprendere studi musicali con aperture d'altro genere non lo riguarda. Preferisce dunque tornare sulla risposta precedente, offrendocene una versione corretta: "Molti sono sì dotati, ma non s'impegnano abbastanza, non hanno voglia di studiare..."
Dobbiamo lasciare il nostro interlocutore con la sua personale interpretazione dei fatti. Perché meno ancora vorrà seguirci nelle riflessioni successive, che ogni pedagogista conosce e ha descritto minuziosamente: la capacità d'impegno dello studente è in rapporto diretto con la sua motivazione a studiare; e la motivazione è a sua volta in rapporto diretto con la carica motivante di cui è capace il suo maestro.

Il maestro Taldeitali ha tenuto anche quattro anni il ragazzo nella sua classe, prima di dirgli che non è dotato, e di consigliargli di non pensare più alla musica (qualche suo collega non è altrettanto serio: in conservatorio le iscrizioni cominciano a diminuire; ed egli se ne guarda bene dal cacciare un allievo, neanche il non dotato). Non lo sfiora minimamente il dubbio elementare, anzi la certezza, che in quei quattro anni il talento del bambino non è stato solo oggetto di semplice "osservazione" da parte del maestro. Il talento è stato manipolato, "coltivato". Fino a che punto il verdetto di condanna riguardi la mancanza di "doti innate" e fino a che punto invece si ritorca come boomerang sull'intervento del docente, non è affatto chiaro, se non altro in linea di principio. Si conoscono molti casi di studenti respinti come inetti da un maestro, apprezzati come talenti da un altro.

Che succede in classe?
La maggioranza degli studenti lascia dunque nei primi anni. Analizziamo quello che succede qui, nei corsi inferiori: che sono oggi il corso di strumento e quello di teoria e solfeggio. Ci soccorre un documento, redatto nel 1980 da un'apposita commissione convocata dal Ministero. Il documento analizzava lucidamente i limiti dell'attuale corso di teoria e solfeggio. Vale la pena rileggerli:
1. "separazione dalla concreta esperienza del fare e del sentire musica". I materiali musicali usati in questo corso sono infatti esclusivamente "eserciziari", e non musiche "vive". Quello di teoria e solfeggio è l'unico corso inferiore in cui si potrebbe dare spazio a una delle più gratificanti esperienze musicali: la musica d'insieme, a cominciare da quella vocale. Invece ben raramente in questo corso "si fa musica".
2. "esclusiva attenzione al fatto grafico". La notazione - il pentagramma e annessi - è un mezzo, sia pure irrinunciabile, dell'esperienza musicale. Il corso invece lo vive come fine a sé.
3. "abnorme privilegiamento dell'aspetto ritmico, spinto a livelli incongruenti con i reali bisogni esecutivi non solo dei corrispondenti anni di pratica musicale, ma di quasi tutta la futura attività scolastica dell'allievo, e ai danni degli altri aspetti del linguaggio musicale: melodico, armonico, timbrico-dinamico, formale". Il documento si riferisce al solfeggio parlato, che assorbe il maggior tempo, che mortifica, in particolare, la lettura intonata, e che è condotto con una generale noncuranza dell'espressività musicale.
4. "settorialità del codice musicale considerato, rigidamente limitato al sistema tonale classico".
5. "incuria in cui è lasciata l'educazione della voce". Sembra davvero che un singolare pudore - chiamiamolo così - impedisca alla voce, il primo, più immediato e duttile strumento musicale, di affinarsi nei nostri piani di studio, che non siano ovviamente le scuole di canto.
6. "mancato collegamento con il parallelo studio strumentale". Classe di strumento e classe di teoria e solfeggio procedono di norma su binari totalmente separati.
7. "impostazione nozionistica e verbalistica dello studio teorico".
Altri limiti della formazione iniziale avrebbero potuto essere messi in evidenza. Proviamo a farlo qui:
8. si trascura l'educazione della percezione e della memoria. Non sono molti i licenziati che sanno distinguere l'uno dall'altro all'ascolto i diversi elementi ritmici, melodici, armonici e via dicendo. Eppure l'orecchio dovrebbe essere considerato l'organo sacro del musicista.
9. manca il contatto con la linfa primaria dell'esperienza musicale: le musiche. Può sembrare un paradosso, ma mentre nella scuola dell'obbligo il ragazzo è educato ad ascoltare le musiche più diverse, nei corrispondenti anni di conservatorio gli unici pezzi che ascolta sono quei pochi, semplici, che è in grado di praticare sul suo strumento.
10. sono represse le risorse creative. Quasi in nessun luogo dei nostri curricoli conservatoriali (che non siano beninteso le scuole di composizione) si incoraggiano attività non solo di composizione o di improvvisazione, ma anche semplicemente di ideazione, decisione, iniziativa personale.

Maligni e benvolenti
Sono compiti di un corso di "formazione di base" o del corso di strumento? Un curricolo riformato potrebbe facilmente assegnarli a entrambi, in stretta integrazione. Di fatto oggi nemmeno nel corso di strumento si praticano attività di improvvisazione, tanto meno di ascolto o di educazione dell'orecchio e della memoria, o di teoria. Evitata è di norma anche la pratica del suonare a orecchio. E' considerata "dilettantesca": ma c'è da chiedersi se sia più "dilettante" chi ha l'invidiabile abilità di suonare un pezzo semplicemente dopo averlo ascoltato, l'abilità di accompagnare al primo ascolto magari il coretto scolastico; o non invece chi non riesce a suonare due note senza lo spartito sul leggio. Distinguiamo il suonare a orecchio dal suonare male. Un allievo può suonare bene, molto bene, a orecchio: basta insegnarglielo. Viceversa non sono pochi gli strumentisti che massacrano la pagina aperta davanti ai loro occhi. Purtroppo l'esclusione della pratica a orecchio genera una totale "rigo-dipendenza" dello studente. Che curiosamente è aggravata da un'altra lacuna dei nostri studi strumentali: la poca cura che si concede alla lettura a prima vista. Venenum in cauda, i più avvertiti fra gli insegnanti di strumento hanno più volte lamentato l'eccesso "tecnicistico" che affligge la scuola strumentale: dove i materiali prevalenti sono eserciziari, proprio come avviene nella classe di solfeggio.

Come si vede, ce n'è abbastanza perché i maligni s'interroghino non su quel 50-67 per cento di studenti che interrompono gli studi precocemente, nei primi anni; ma sul rimanente: come avrà fatto a tener duro fino al conseguimento della licenza inferiore? Ma ce n'è abbastanza anche perché i bendisposti possano elaborare un progetto per la necessaria correzione di marcia. Al legislatore basterà volgere al positivo i meccanismi negativi riconosciuti alla scuola: mettere la viva esperienza musicale al cuore dei corsi teorici, coltivare la percezione uditiva, la vocalità, la musica d'insieme, incoraggiare la creatività, e così via. Il curricolo di cui ha bisogno ogni studente di musica è in fondo quello che si dà come meta di far maturare in lui di musica le risorse fondamentali dell'esperienza musicale.

Un musicista piccolo e intero
Fin dai primi anni. Il fatto che il progetto di riforma arrivi a differenziare i corsi superiori in modo da permettere sbocchi professionali diversi, non comporta che i curricoli debbano essere differenziati in partenza. Al contrario: se è vero che la professione non si decide a 11 anni, il curricolo di base dovrebbe rimanere lo stesso per tutti. Senza nemmeno porci la domanda di quel che il nostro ragazzo se ne farà poi, di queste belle cose che gli insegnamo. Che diventi il Michelangeli o il Bussotti bis, il Fedele D'Amico o il Morricone bis, o magari l'Ornella Vanoni bis, è cosa che potrebbe non riguardare più di tanto il formatore di base (anche se ogni principio ha le sue sane eccezioni). Sempre sul filo del paradosso, si potrebbe anche considerare ideale quel curricolo che sappia far venir voglia al ragazzo di diventare tutte quelle figure insieme, grande esecutore e grande organizzatore della vita musicale, grande insegnante e grande compositore di musiche da film.... Salvo rendersi inevitabilmente conto che le sue vite non saranno sette come quelle dei gatti; e che diventare "grandi" in qualcosa significa fatalmente rinunciare ad esserlo in altre.
Il documento del 1980 arrivava a delineare proprio un compito del genere, in fondo ben ambizioso, al corso di formazione musicale di base, come suggeriva di ribattezzare l'attuale corso di teoria e solfeggio: "il corso ha come scopo lo sviluppo integrale delle competenze musicali dell'allievo, dirette alla conoscenza e all'esercizio delle varie esperienze sonore esistenti nella nostra cultura, e in vista di una personalità musicalmente versatile e polivalente". Un bambino non sceglie il suo destino a 11 anni. Quello che gli serve, prima d'ogni altra cosa, è che la scuola coltivi il suo entusiasmo, gli dia la carica: che metta in azione in lui, nel migliore dei modi, i motori dell'esperienza musicale. I diversi motori. "Bisogna cominciare il più presto possibile lo studio strumentale", si sente dire spesso. Ma non è solo il meccanismo fisiologico che esige un'attivazione precoce. Ne hanno bisogno anche gli altri: i motori dell'abilità percettiva, della sensibilità estetica, dell'intelligenza, dell'interesse verso le più diverse forme della vita musicale, della stessa disponibilità affettiva verso la musica, ogni tipo di musica.
Il documento, era facile prevederlo, rimase lettera morta nei cassetti del Ministero, come un embrione ibernato. E se qualcuno, fra i responsabili che hanno a cuore le sorti dell'istruzione musicale, si provasse ora a riportarlo in vita?

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