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Pistoia Blues diventa extralarge, un mese di eventi in omaggio a B.B. King

Dall\'1 al 24 luglio quaranta live solo sul main stage. Coi classici Santana e Sting o Mumford & Sons e Counting Crows. I nuovi idoli Hozier, Mike Rosenberg, Joe Walsh. E i duri del suono dai Dream Theater a Queensrÿche e Darkness. Maratona italiana con Becattini, Di Maggio Bros, BSBE. Una mostra racconta il mito Fender

Dall\'1 al 24 luglio quaranta live solo sul main stage. Coi classici Santana e Sting o Mumford & Sons e Counting Crows. I nuovi idoli Hozier, Mike Rosenberg, Joe Walsh. E i duri del suono dai Dream Theater a Queensrÿche e Darkness. Maratona italiana con Becattini, Di Maggio Bros, BSBE. Una mostra racconta il mito Fender

di Paolo Russo

Classici da Hall of Fame e anche più recenti, ma già da tempo fra le braccia della gloria. Malinconici giovani songwriter di bellissime, anzi favolose speranze. Maestri del prog e celebri ultrà del rock duro. Certezze e promesse del blues di casa nostra, un’allegra brigata di busker come menestrelli fra le pietre secolari del centro, didattica per chi suona e chi balla (sì, il ballo blues è giovane ma pare stia crescendo: chissà come, considerato che il blues come lo conosciamo noi non si ballava…). Ancora, il ritorno del doppio cd dei giovani talenti scelti dal festival e l’annuncio dei vincitori del suo contest nazionale 2015, Obbiettivo Bluesin. Fino alle 100 chitarre, bassi, amplificatori e custodie Fender in mostra per raccontare la storia della musica popolare del secondo ‘900 attraverso uno dei suoi più venerati marchi. A Pistoia Blues il tradizionale fine settimana di metà luglio non basta più. E malgrado l'aria grama che tira, con quest’edizione, la numero 36, si allunga dal 1° al 24, quaranta artisti solo sul main stage della splendida Piazza del Duomo. Fermo restando, per l’alta densità di occasioni, il baricentro nei giorni dal 17 al 19. Quasi un mese di musica ed eventi. Con una dedica d’obbligo: a B.B. King, laica divinità del blues elettrico ma anche genius loci d’un festival sul cui palco è salito dieci volte. “L’allungamento – spiega Giovanni Tafuro, al suo trentennale da organizzatore e direttore artistico di Pistoia Blues – nasce sia dall’agenda di alcuni artisti che ci tenevo ad avere, che dal desiderio di dare più corpo al festival, di espanderlo nel tempo e di conseguenza anche negli spazi cittadini. Per farlo ho dovuto assumermi un discreto rischio d'impresa: il festival costa in tutto 1.400.000 euro, 250.000 sono coperti da contributi pubblici e sponsor, pareggio o utili arriveranno dai biglietti. Con B.B. King ho voluto saldare un debito anche personale: la mia prima edizione fu la sua seconda volta a Pistoia. Poi insieme ne abbiamo fatte altre otto: non era magari un tipo apertissimo, ma lo ricordo come una persona davvero gentile, cordiale e soprattutto di un grandissimo professionista. Doveva suonare anche nel ’95 ma mandò sul palco la sua band da sola per un coma diabetico. Davide Riondino, che dovette dare l’annuncio alla piazza gremita, concluse, vista la gravità della cosa, ‘speriamo di poterlo vedere ancora’. Penso di poter dire che gli portò fortuna, da quella sera B.B. ha suonato altri vent’anni”.

Rock e folk. Melodie e nostalgie. Una dolceamara malinconia percorre la prima tranche di Pistoia Blues. Qualcosa di nuovo anzi d’antico: grazia e sofferenza del mal de vivre consegnati a suoni antichi, classiche strutture, testi profondi, sogni e memorie di un futuro più umano. L’apertura del 1° luglio è affidata al rock & folk diMumford & Sons (il 30 giugno sono a Roma), fresco reduce dai recenti trionfi del dolcissimo, incantevole Wilder Mind. In apertura il primo dei molti songwriter di cui sopra: l’inglese Eaves, voce, piano e chitarra per un melodico menestrello d’oggi sulle tracce di tanti maestri lontani, da Nick Drake in poi. Da vent’anni e più sulla strada, di questo rinfrescante legame col passato – The Band e Rickie Lee Jones, Joni Mitchell e Little Feat giù giù fino ai REM, senza scordare jazz, soul e gioiose sfuriate southern – i molto californiani Counting Crows (il 4 luglio a Roma) sono fra gli alfieri più ispirati: sette dischi, il primo fu August and Everything After, gioiello benedetto dal mago T-Bone Burnett, l’ultimo è l’impagabile Somewhere Under Wonderland (2014), ottima fama dal vivo, arrivano a Pistoia il 3 luglio guidati dalla voce spiegata e intima di Adam Duritz, un po’ Mick Jagger un po’ Van Morrison, di certo fra i più dotati interpreti in circolazione. Prima di loro Arianna Antinori, blueswoman italiana giramondo, vincitrice del contest indetto dai Joplin, quelli di Janis, e per giunta, fra 2010 e 2012, in tour con Big Brother & Holding Company.Take Me to the Chruch, che ai Grammy 2014 ha cantato con Annie Lennox, l’ha scagliato in un amen nei cieli della musica mondiale – infatti ai premi del 2015 c’è volato da nominato e con un contratto Island in tasca – facendone anche un tenero, grintoso paladino dell’impegno anti omofobia: il 7 a Pistoia, in perfetta solitudine, per l’irlandese Hozier sarà la prima italiana, il giorno dopo è a Segrate. Brughiere, tramonti, amori perduti, chitarra-voce da manuale, fra souvenir d’english folk e antiche nostalgie ben modellate, anche Michael David Rosenberg, dopo la fama coi Passenger (2003-2009), debutta in proprio con numeri da capogiro: All the Little Lights, 2012, fa un milione e mezzo di copie. Dopo il tutto esaurito al Fabrique di Milano nell’ottobre scorso, il 15 sarà a Pistoia col fresco Whisper II e l’amico Stu Larsen (a seguire sono il 16 a Sesto al Reghena, Pordenone, e il 18 a Barolo); in principio il rock anglofilo dei Proclama da Torino.

Poi vennero i duri… È una maratona vera quella gratuita che il festival affida al blues italico il 17 luglio. Partenza alle 19 con i ragazzi di Obiettivo Bluesin, meritorio il suo scouting fra i bluesman in erba dello stivale, e poi una scatenata sarabanda di stimati veterani: da due internazionalmente riconosciuti maestri delle sei corde, Nick Becattini and Band e lo sfrenato rockabilly di Marco Di Maggio coi suoi incontenibili Bros, a Bud Spencer Blues ExplosionAngelo Leadbelly Rossi e Vince Vallicelli. E dal 18 il gioco si fa duro: apprezzati ambasciatori dell’hard rock britannico, i Darkness (data unica) salgono sul palco in sella all’ultimo lavoro, Last of Our Kind, insieme ai colleghi americani Black Label Society (altra data unica) messi al mondo dal chitarrista Zakk Wylde, antico pard del metallizzatissimo Ozzie Osborne. Del cast della serata fan parte anche i toscani J27 che presentano dal vivoRegeneration, nel quale si son valsi del regale contributo di Tracii Guns, i Rain, Runover e Noise pollution. Magniloquenti ipervirtuosi, alluvionali narratori di saghe e suoni prog, genere che han trionfalmente rivisto e corretto in chiave monumental-hi tech, i Dream Theater (il 19 giugno a Barletta, il 1° luglio a Roma) sbarcano in Toscana la notte del 19, insieme ad un'altra band da quasi tre decenni nella storia. Quella del metal, che però i Queensrÿche (il 24 a Roma) han comunque farcito di prog fino ad essere i pionieri di un sottogenere molto in voga negli Usa: malgrado il tempo e il cambio del cantante (Todd La Torre al posto dello storico Geoff Tate), gli eretici di Seattle continuano a mandare buone notizie sul proprio stato di forma. Cast extralarge quella sera, com’è costume generale di metalli e progressive variamente declinati. Ecco allora spuntare dall’apertura in là, il sinfo-rock degli Shineresy da Trieste, i veronesi Methodica, indefessi adoratori dei Genesis e, ultimi prima degli headliner, i Vision Divine, ibrido power metal-prog guidato dall’infaticabile Fabio Lione, voce molto amata fra i duri del suono.

E le stelle… Oltre i quali abitano le stelle universalmente note. Come Carlos Santana, che degli otto ellepì dal 2005 di All that I Am al doppio Corazòn versione live del settembre 2014, ben quattro li ha sfornati a colpi di duetti, remix e alternate. Non è certo un segno del Santana migliore, del creatore di nuovi suoni e mondi latini, quello lanciato nell'alto dei cieli psichdelico-latini fra ’69 e ’72 con Abraxas su tutti. Ma col carisma non si scherza né si ragiona. Il 21 luglio, in Piazza del Duomo, il chitarrista, che il giorno prima è a Verona, torna con la sua mega band completa di fiammeggianti fiati e percussioni d’artificio, il cui “peggior” elemento ha in curriculum almeno una nomination al Grammy di tre o quattro categorie. E con un repertorio che, al di là degli obblighi verso l’ultimo nato, farà batter forte il cuore a una folla, c’è da scommetterci, da grandi occasioni. Appena tre giorni, ed ecco anche Sting, che il 21 è a Barolo, fare i conti la buona sorte che gli è toccata, quarant’anni larghi di leggenda e classici, cui i tempi più vicini non han nuociuto comunque più che tanto: è in quella veste che lo si vedrà a Pistoia il 24, anche nel suo caso una grazia ricevuta per non meno di, a conti fatti, tre generazioni. Non diversamente da Santana, al quale lo legano pure esordi formidabili – forse più del collega messicano – e un seguito invece dignitoso, però mai più vicino ai picchi himalayani del rock che furono i Police. Ma la vocazione cantautorale di Pistoia Blues 2015 è viva e lotta per il festival, a memoria d’uomo mai così dentro allo spleen contemporaneo di tanti bei songwriter. Nient’affatto casualmente sarà la voce toccante, carnosa, palpitante diJames Walsh – figlioccio di Tim Buckley? fratellino di George Harrison? nipote di entrambi? – ad aprire, in data unica, per il gran finale con Sting. Liquidato conTurning Point il lutto per la morte dei malinconici Starsailor, Walsh da un anno porta in giro il suo primo disco da solista Turning Point, di cui ha girato e messo su youtube alcune incantevoli clip girate in tour fra camere d’albergo, palchi e panchine. Che racconta più e meglio d’un disco fragilità e intima bellezza di ciò che ancora oggi chiamiamo canzoni. Quello strano oggetto che, ascoltando uno come lui, pare davvero capace di sopravvivere persino alla desertificante digitalizzazione della creatività. Che in molti fra vecchi e giovani musici e pubblici, si stanno lasciando alle spalle a pro di antiche madeleine al sapor d’analogico e buon vecchio vinile, mai così in salute nell’ultimo ventennio.

Tutte quelle chitarre… pardon Fender. Una custodia, se è originale, può costare anche 8000 euro. Per certi modelli di Stratocuster possono non bastarne 80.000. Dal 7 al 14 luglio grazie all’inevitabile collaborazione del Museo Fender Vintage di Forlì, la cui esistenza si deve alla sconfinata passione dei forlivesi Flavio Camorani e Michela Taioli, Pistoia Blues porta al teatro Bolognini un centinaio fra chitarre, amplificatori, bassi e custodie (non ci saranno purtroppo i favolosi pianoforti Rhodes) prodotti fra 1951 e 1974, quando il californiano Leo Fender, che aveva fondato il laboratorio nel 1946 e partorito la prima chitarra elettrica nel 1950, lo cedette alla CBS nel 1965 per 13 milioni di dollari, restando come consulente fino al ’75 (dall’85 l’azienda è dei dipendenti). Fender trasformò così presente e futuro di tutti i chitarristi del pianeta plasmando le sue ancor’oggi irripetibili creature artigiane. E dando vita, di lì a poco, all’eterno “clash of titans” con la rivale Gibson di Les Paul. Fu, quella di Fender, vera rivoluzione, inverata col proprio genio e competenze, un’ostinata vocazione all’innovazione e il rispetto di un must della cultura produttiva Usa: facilitare il compito di qualcuno nell’assolverlo. Nel caso, suonare una chitarra elettrica, per giunta dopo averla inventata. È da molti anni che possiam dirlo: fu come inventare l’astronave. La musica voltò pagina. Anzi galassia. Se non ci credete chiedetelo a Buddy Holly, Pete Townshend, Jimi Hendrix o Dave Gilmour che, con Eric Clapton e Mark Knopfler, fecero delle loro “Strato” razzi per suoni e visioni fin lì impensabili. Non è quindi difficile pronosticare svariate centinaia di chitarristi – gente che, famosa o ignota, ha i suoi ferrei credo, le sue inalterabili manie – in coda per quei diamanti a sei e quattro corde. E per tanti invitanti memorabilia: cataloghi, manifesti, foto d’epoca che rivanno alle origini di quella svolta, che non fu certo a solo beneficio del rock. Quando passione e studio si uniscono ai livelli di Camorani, non è solo un bene per il piacere di vedere conservati e documentati al meglio quei magnifici oggetti toccati da mani quasi divine, ma una traccia utilissima a scrivere la storia della musica in modo più accurato e completo. Se musicologi e storici della classica un dì si son messi a lavorare sugli Stradivari e i Guarnieri del Gesù, perché mai chi s’interessa di (e intenda studiare sul serio) rock, jazz, black music, pop (e molto altro) non dovrebbe fare altrettanto con Fender e Gibson (e molto altro)?

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