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di Carlo Delfrati
da 'ScuolAmadeus' di dicembre 2004
“Non farò più cantare Tu scendi dalle stelle nella
mia scuola, che è una scuola statale – scrive un insegnante - perché
nella mia classe ci sono due musulmani, una shintoista, un ebreo, una testimone
di Geova e tre atei, e non intendo calpestare i loro diritti: Natale è
una festa cristiana, e non è giusto farla celebrare con musiche e canti
anche a loro”.
La questione affiora improvvisa in questi tempi di forte immigrazione, e assume
toni a volte polemici. Dall’altro fronte si risponde che così ragionando
si calpestano i diritti della maggioranza: Natale è una delle ricorrenze
più importanti della tradizione italiana ed europea, e non è giusto
rinunciarvi solo per rispetto verso i nuovi arrivati; è l’ospite
che deve adattarsi alle norme dell’ospitante...
Con l’avvicinarsi del Natale, sono in effetti molte le scuole che si preparano
alla ricorrenza con letture, disegni, canti, musiche da ascoltare. Il repertorio
delle musiche e dei canti natalizi è uno dei più ricchi e vari
che si conoscano nella tradizione europea, dal gregoriano a Messiaen e oltre,
e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
La maggioranza dei nostri insegnanti continua come sempre. Ma si vede insidiata
da una minoranza crescente che intende farsi portavoce dei gruppi non cristiani
presenti nelle nostre scuole...
Diritti calpestati, dunque, quelli dei non-cristiani? Credo che si debba far
chiarezza sulla questione, togliendo di mezzo certi equivoci.
Il canto come atto di culto
Se in chiesa canto Tu scendi dalle stelle in atteggiamento devoto, sto
pregando con la parola cantata invece che semplicemente parlata: la parola scritta
da Sant’Alfonso de’ Liguori, che prendeva a prestito un motivo popolare
preesistente, già presente nel Messia di Händel pochi anni
prima. L’intero repertorio gregoriano nasce con questa intenzione: pregare
Dio, la Madonna, i santi del cristianesimo. Cantando si prega meglio. San Giovanni
Crisostomo attribuisce l’intuizione a Dio stesso: “Dio, visto che
la maggioranza degli uomini erano indifferenti, poco disposti a leggere le cose
spirituali e a sopportarne volentieri la fatica, volle rendergliela più
piacevole: aggiunse la melodia alle parole profetiche, di modo che, attratti
dal ritmo del canto, tutti gli rivolgano con ardore i santi inni”. Il
canto in questi casi è un vero e proprio atto di culto. E lo è
sia che lo si canti in chiesa, o che lo si canti in classe.
Ma la stessa canzone potrebbe essere cantata in un contesto e con una motivazione
completamente differenti.
Il canto come oggetto di studio
Vediamone alcuni. L’insegnante potrebbe aver messo in programma una lezione
su influssi, derivazioni, citazioni in musica. Può scegliere una melodia
che ha avuto speciale fortuna, come la sequenza medioevale Dies irae
e mostrare come abbia attraversato i secoli, da Ockeghem a Lully, da Berlioz
a Liszt, da Eugène Ysaïe a Luigi Dallapiccola. Una lezione di storia
della musica, della musica europea s’intende, come momento insostituibile
per una riflessione sul concetto stesso, più astratto, di influsso culturale.
Un altro insegnante può ricostruire la trama che collega in una medesima
costellazione semantica il concetto cristiano di Gesù pastore delle anime;
il pastore mitologico che fa visita alla capanna; lo strumento del pastore,
la zampogna; il ritmo dondolante della pastorale; arrivare alla melodia natalizia
napoletana Quanno nascette Ninno, diventata He shall feed his flock
nel Messia handeliano, e Tu scendi dalle stelle nel libro di preghiere
di Sant’Alfonso: un’altra lezione di storia della musica. Un altro
ancora, più semplicemente, si serve di quel canto nell’ora di grammatica
musicale, per spiegare il tempo composto e sperimentare cosa diventerebbe
un canto come il nostro se fosse trasformato da tempo composto a tempo semplice.
Non occorre essere cristiani per svolgere una lezione del genere. L’insegnante
può anche essere un mangiapreti, come si usa dire. Sceglie Tu scendi
dalle stelle perché in classe molti la conoscono già e gli
facilitano il compito. Quel che vale per l’insegnante perché non
dovrebbe valere per l’alunno? Anche perché la volta dopo lo stesso
insegnante potrebbe illustrare il concetto di derivazione lavorando in classe
sul CD contenente i raga indiani; oppure mostrare come la “scala
araba” sia presente un po’ in tutta l’area mediterranea dell’Europa
(con quei caratteristici intervalli di seconda eccedente); oppure potrebbe approfondire
il concetto di tempo e metro utilizzando un canto sefardita o una danza sacra
musulmana. Cose un po’ più complicate solo perché non è
detto che l’insegnante ne abbia competenza sufficiente, e poi perché
per niente familiari non solo ai suoi ragazzi italiofoni ma anche agli immigrati
(e non è detto che la ben più conosciuta Avril Lavigne –
che sembrerebbe appartenere alla koiné dei gusti adolescenziali - non
incontri le stesse resistenze ideologiche di quelle suscitate da Sant’Alfonso).
In tutti questi casi l’obiettivo dell’insegnante non è far
pregare i ragazzi; è istruirli sul linguaggio musicale: sia nei suoi
aspetti formali/grammaticali, sia nei suoi aspetti simbolici/semantici, questi
ultimi a forte valenza interdisciplinare. Non si studiano nelle nostre scuole
le conquiste di Maometto e l’espansione dell’Islam? Non si studiano
le religioni del mondo? Cosa succederebbe allo studio della storia della musica
europea se si dovesse cacciarne fuori il repertorio sacro? A cominciare dai
Conservatori, che sono scuole statali!
Dopo l’atto di culto, ecco dunque un secondo uso possibile dei canti di
Natale: come esperienza storica e linguistica. E questa è un’esperienza
squisitamente laica: non ha niente a che vedere con le fedi. Musulmano o indù
o ateo, se vuoi diplomarti in Conservatorio devi anche conoscere e avere ascoltato
e praticato, Palestrina e Bach, Pergolesi e César Franck, Messiaen e
Gorecki.
Il canto come rappresentazione
Ma laico è anche un terzo modo di usare i canti natalizi, e riguarda
l’uso rappresentativo. Il teatro è un’altra incresciosa
lacuna della nostra scuola, mitigata di quando in quando dallo spettacolino
di fine anno. Di solito in questi saggi la musica non manca. Lo spettacolo può
prendere ispirazione dalla tela di Penelope, o dal viaggio di Gilgamesh, dalla
vita di Gandhi, o dai riti dei Bacanghi centroafricani. Perché non dovrebbe
prendere ispirazione dalla vita di Gesù, o da uno qualunque degli episodi
biblici, così ricchi di storie avventurose e affascinanti? L’attore
che recita Mefistofele sa di avere i piedi ben al di qua dei mondi, non nell’aldilà.
In un racconto di Natale anche la preghiera è propriamente “rappresentazione
della preghiera”. Chi canta “Dio di Giuda” dal Nabucco
o “Nume custode e vindice” dall’Aida sa che non sta
pregando ma “rappresentando” una preghiera. La ragazza che impersona
Maria piangente alla croce non sta pregando, sta interpretando la parte. Nessuno
le chiede di essere cristiana, può anche essere taoista o atea. Sacre
rappresentazioni dunque: che se nelle loro origini europee erano veri e
propri “drammi liturgici”, quindi “atti di culto”, già
nel XV secolo avevano perso quel carattere ed erano diventati spettacoli, tout
court, da recitare in piazza, magari dagli stessi giullari che a carnevale allestivano
lo spettacolo osceno e anticlericale.
Una quantità di canti natalizi è di questo tipo. Nascono sì
in ambienti cristiani, certo non in ambienti indù o musulmani. Ma potrebbe
benissimo averle inventate un ateo. Così come tante Messe e Avemarie
sono state composte da musicisti atei: come sempre, Parigi (in questo caso il
guiderdone per uno che tiene famiglia) val bene una messa! Non ho bisogno di
essere scintoista per progettare un bel tempio per la comunità giapponese
di Kyoto (sempre che ne sia capace e che la parcella sia invitante).
Educare alla tolleranza
Che poi sia facile far accettare queste cose a chi ha difficoltà ad ammettere
la distinzione, questo fa parte del problema più grande della integrazione
culturale, nel crogiolo di etnie e di mentalità anche religiose nel quale
sta ribollendo e riplasmandosi la nostra società. Per la scuola, la capacità
di cogliere le differenze non può essere considerata un presupposto,
un “prerequisito” come si dice nel gergo, bensì un obiettivo
da raggiungere. Si parla normalmente di Maometto nell’ora di storia (e
magari di religione) delle nostre scuole: l’insegnante sa che non è
più il tempo di essere manichei e di dipingere il profeta tra i dannati,
come faceva il pittore del Duomo di Bologna. Al bimbo e alla sua famiglia musulmana,
o buddista o indù, si parlerà allo stesso modo di San Giovanni
e San Pietro. Come i riti, le immagini e le preghiere stesse possono diventare
oggetto di confronto, di studio multiculturale, così possono entrare
nel progetto educativo i canti religiosi di ogni civiltà: magari per
scoprire che come le raffigurazioni pittoriche di Dio (fossero anche solo i
simboli geometrici dell’islam o degli ebrei) ci fa capire molto di come
pensano Dio i fedeli che le creano e le riveriscono, così i canti religiosi
del confucianesimo, del buddismo, dell’islam, dell’animismo, del
cristianesimo hanno tanto da farci capire delle rispettive credenze.
Certo, un compito impegnativo. Ma è forse l’unico che permetta
di educare alla pacifica convivenza. L’intolleranza è l’avversario
che le nostre democrazie si trovano a dover disarmare: un avversario duro se
si pensa che ad essere rifiutati a volta come “canti di Natale”
sono anche canzoni che col Natale c’entrano ben poco: c’entrano
solo o perché a Natale fa freddo e nevica anche, almeno quando le preghiere
degli sciatori vanno a buon fine; o perché è convenzione che ci
si scambino regali. Cosa che anche a un ateo fa di solito molto piacere. We
wish you a merry Christmas, auguri di buon Natale, lo può cantare
ai suoi compagni cristiani anche un brahmano (e loro lo ricambieranno con un
canoro OM il giorno di nascita del guru Vajasanayeva) ; Klingelingeling
(“chi ci vuole bene coi regali viene”) lo può cantare in
italiano o in tedesco anche un taoista: pro domo sua stavolta. E Jingle bell?
Curiosa “cristianizzazione” di un canto gioiosamente laico. Che
ogni lettore di Amadeus , cristiano o musulmano, buddista o taoista, confuciana
o ateo, è invitato a cantare, liberato dalle manipolazioni natalizie,
nella versione che gli regaliamo qui: autentica, sia pure nell’adattamento
italiano.*
Jingle bell ©
1. Com’è bello andar sulla slitta via con te
sopra i campi candidi ridendo sai perché.
Festoso è il tintinnar che ci accompagnerà:
ci suonano i sonagli un inno di felicità. Oh!
Jingle bell, jingle bell, suona ancor per me,
com’è bello correre sulla slitta insieme a te. Oh!
Jingle bell, jingle bell, suona ancor per me,
com’è bello correre sulla slitta insieme a te.
2. Qualche giorno fa ho pensato di slittar,
ho invitato una ragazza a sedersi accanto a me.
Il cavallo era un po’ giù, andava via a zig zag,
finì dentro una buca, e noi tutti a gambe in su. Oh!
Jingle bell…
3. Successe giorni fa, lo devo raccontar,
andavo sulla neve finché presi a ruzzolar.
Passava lei di lì, sopra una slitta blu,
rideva a crepapelle, non lo scorderò mai più. Oh!
Jingle bell…
4. La neve è bella assai: finché tu lo puoi far,
invita le ragazze (i ragazzi) a slittare insieme a te.
Attaccaci un cavallo, e non fermarti mai,
sulla neve candida tu fila più che puoi. Oh!
Jingle bell…
* Le parole originali inglesi e la musica sono riprodotte nei testi scolastici
I colori della musica per la scuola media (Milano, Principato, 2004)
e MusicAmica 2 (Milano, BMG-Ricordi, 2005) per la scuola elementare.
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